Made in China - page 36

MADE IN
CHINA
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a decenni “Cina” e “lavoro” sono un bi-
nomio inscindibile agli occhi dell’opinio-
ne pubblica occidentale. Storie cinesi di
salari da fame o addirittura non pagati, incidenti
sul lavoro, licenziamenti di massa, proteste opera-
ie sono state riportate con regolarità dalla stampa
internazionale, contribuendo alla pessima fama di
quella che è stata definita la “fabbrica del mon-
do”. Eppure, ciò che colpisce maggiormente l’os-
servatore non è tanto la diffusione dei fenomeni di
sfruttamento in Cina, quanto piuttosto il fatto che
essi accadano a dispetto della retorica dello Stato
cinese sulla necessità di tutelare i diritti dei lavo-
ratori. Di fatto, sono ormai quasi vent’anni che le
autorità cinesi hanno avviato un’opera legislativa
finalizzata alla costruzione di un corpo giuslavori-
stico che non ha nulla di invidiare a quelli di tanti
paesi occidentali, accompagnandola ad una costan-
te attività di propaganda mirata a promuovere la
conoscenza di leggi e regolamenti tra i lavoratori.
Come spiegare dunque il paradosso di uno Stato
che da un lato invita i lavoratori a “servirsi dell’ar-
ma del diritto” (
yi falü wei wuqi
) e dall’altro tol-
lera l’esistenza di violazioni diffuse di quelle stesse
leggi che ha contribuito a creare? Come concilia-
re i discorsi contrastanti che descrivono le autori-
tà cinesi alternativamente come garanti dei diritti
dei lavoratori di fronte al capitale internazionale
e come responsabili della compressione di salari e
diritti al fine di attrarre investimenti? Per azzarda-
re una risposta a queste domande è necessaria una
riflessione su quello che è stato il processo che ha
portato alla nascita del diritto del lavoro in Cina,
nonché sulla questione della percezione del diritto
da parte dei lavoratori cinesi. Solamente in questo
modo si capirà come il diritto del lavoro in Cina
più che un’arma al servizio dei lavoratori si riveli
uno strumento nelle mani dello Stato, il quale se ne
serve ai fini del rafforzamento della legittimazione
politica e del mantenimento della stabilità sociale.
Un discorso ufficiale sui diritti dei lavoratori
ha iniziato ad emergere in Cina nella prima metà
degli anni Ottanta, sull’onda del boom del setto-
re privato e dell’introduzione del sistema dei con-
tratti di lavoro. Fino ad allora i lavoratori cinesi,
per lo più dipendenti di imprese statali e collettive,
si erano trovati ad agire nel contesto delle “unità
di lavoro” (
danwei
), strutture che, detenendo un
monopolio pressoché assoluto sull’erogazione del
welfare nell’ambito di un modello occupaziona-
le a vita – la cosiddetta “ciotola di riso di ferro”
(
tiefanwan
) – fungevano da strumento di controllo
sociale, ponendo i lavoratori in un rapporto di sud-
ditanza nei confronti dello Stato. In questa situa-
zione, la retorica ufficiale ruotava non tanto attor-
no al concetto di “legge” (
falü
) e “diritti” (
quanli
),
quanto piuttosto ad una presunta titolarità dei la-
voratori nei confronti dello Stato e dei suoi asset,
una nozione racchiusa nel termine
zhurenweng
,
letteralmente “senso di padronanza”, un principio
radicato nello spirito rivoluzionario del Partito
Comunista e ancora oggi incastonato all’articolo
42 della Costituzione cinese, lì dove si legge che:
Il lavoro è un dovere glorioso per tutti i cit-
tadini che ne abbiano le capacità. I lavoratori
delle imprese statali e delle organizzazioni eco-
nomiche collettive in città e campagna, hanno
il dovere di comportarsi verso il proprio lavo-
ro con l’atteggiamento di padroni dello Stato.
Con la riforma del lavoro e la rottura della cio-
tola di riso di ferro alla metà degli anni Novanta,
quella che fino a quel momento poteva a buon di-
ritto essere definita una vera e propria classe ope-
raia ha vissuto un processo di rapida frammenta-
di
Ivan Franceschini
La legge come un’arma
per i lavoratori?
Il diritto del lavoro in Cina, fra attivismo e propaganda
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